Le porte del lavoro all’interno dei musei si aprono a chi si trova detenuto nelle patrie galere. L’accordo concertato dal ministro della Cultura, Dario Franceschini e il ministro della Giustizia, Marta Cartabia prevede l’inserimento nei luoghi di cultura di personale dedito ai cosiddetti Lavori di pubblica utilità.
Nella fattispecie, il personale sarà costituito da detenuti condannati a pene detentive non superiori ai 4 anni. Anche la rosa dei reati costituirà pregiudizio nella scelta. Saranno infatti selezionati solo coloro che si sono macchiati di reati di “gravità contenuta” come furto, danneggiamento di beni culturali, omissione di soccorso, lesioni personali, stradali…
Il dirottamento dalle carceri all’impegno lavorativo è finalizzato anche alla “riparazione del danno inflitto alla collettività” e si allinea al concetto di una giustizia penale che non deve essere solo detenzione.
E’ la prima volta che viene siglato un accordo del genere tra due ministeri. Sono 52 i siti culturali che saranno interessati dal programma, mentre le persone destinate a questo progetto sono 102. In caso di esito positivo nel lavoro di pubblica utilità, il loro reato si estinguerà.
Nella delega penale appena approvata in sede parlamentare l’istituto viene rafforzato e ne estende la possibilità a chi è condannato a pene detentive fino a 6 anni, fatti salvi alcuni tipi di reati.
Allo stato attuale le persone messe alla prova sono 23.700 e ben 8.300 si trovano a svolgere questi lavori.
Va tutto bene ma non benissimo, osservano alcuni, perché si vanno comunque a sottrarre posti di lavoro a chi magari ha la sua bella laurea chiusa nel cassetto e spera di trovare occupazione nel settore dei beni culturali…
La ministra Cartabia ha commentato che la possibilità di destinare queste persone all’arte rappresenti un atto di grande civiltà. L’auspicio della ministra è che progetti simili possano trovare il coinvolgimento di altri ministeri.
Franceschini si dice convinto che l’attuazione di questo programma risponderà positivamente alle aspettative, precisando che sono molti i luoghi della bellezza e della memoria messi a disposizione di questa idea lanciata dalla ministra Cartabia.
Sebbene sia lodevole la natura del progetto anche in chiave morale, non si può non tenere conto delle rimostranze di coloro che vedono allontanarsi sempre più la speranza di una collocazione lavorativa nel settore. Non appare quindi una critica retorica quella avanzata sul programma di reinserimento dei detenuti. Non perché si abbia qualcosa contro di loro ma perché in molti settori di servizi, si ricorre all’utilizzo di persone che hanno un particolare status.
Per fare degli esempi, alcuni Comuni ricorrono ai Puc (Progetti Utili alla collettività) inserendo in alcuni servizi, prevalentemente di pulimento e manutenzione, i soggetti fruitori del Reddito di cittadinanza. Altri soggetti con particolari fragilità sociali, vengono destinati a servizi utili alla società. Ci sono poi coloro che hanno un’invalidità che gli permette comunque di lavorare. Altri ancora provengono dagli ambienti dell’immigrazione e grazie all’intervento degli assistenti sociali godono di una corsia preferenziale che li pone come candidati da preferire in altri servizi.
Gli esempi sono innumerevoli e sebbene il diritto al lavoro non possa e non debba essere alienato ad alcuno, va considerato lo “svuotamento” delle possibilità lavorative disponibili per gli altri. Il reinserimento di un cittadino che ha sbagliato e sta pagando, deve essere sicuramente in cima alle preoccupazioni di uno Stato civile. Rieducare piuttosto che colpire, è l’assunto inderogabile che deve mantenere viva la logica detentiva. Alla stessa stregua, deve però lo Stato deve preoccuparsi del bisogno di lavoro di un cittadino che non possa “vantare” deficit sociali.
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