PIGLIO, AAA cercasi parenti di Antonio Saccucci per non dimenticare.
Nell’elenco dei nominativi dei militari che vennero deportati da Rodi, quali prigionieri di guerra dei tedeschi con la nave Oria l’11 febbraio 1944 risultano imbarcati anche due pigliesi: Angelo Atturo anno 1923 e Antonio Saccucci nato a Piglio il 7 gennaio 1919. Dall’articolo del giornalista Lorenzo Savi pubblicato il 4 febbraio 2023 dimenticatidistato dal “Resto del Carlino” dal titolo “La tomba dimenticata di 4200 soldati italiani” si evince che:
“Pochi sanno del naufragio del piroscafo norvegese Oria e degli oltre 4000 militari italiani che vi hanno perso la vita. La nave di 2000 tonnellate, varata nel 1920, requisita dai tedeschi, salpò l’11 febbraio 1944 da Rodi alle 17,40 per il Pireo. A bordo più di 4000 prigionieri italiani che si erano rifiutati di aderire al nazismo o alla RSI dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943, 90 tedeschi di guardia o di passaggio e l’equipaggio norvegese. L’indomani, 12 febbraio, colto da una tempesta, il piroscafo affondò presso Capo Sounion, a 25 miglia dalla destinazione finale, dopo essersi incagliato nei bassi fondali prospicienti l’isola di Patroklos (in Italia erroneamente nota col nome di isola di Goidano). I soccorsi, ostacolati dalle pessime condizioni meteo, consentirono di salvare solo 37 italiani, 6 tedeschi, un greco, 5 uomini dell’equipaggio, incluso il comandante Bearne Rasmussen e il primo ufficiale di macchina.
L’Oria era stipata all’inverosimile, aveva anche un carico di bidoni di olio minerale e gomme da camion oltre ai nostri soldati che dovevano essere trasferiti come forza lavoro nei lager del Terzo Reich. Su quella carretta del mare, che all’inizio della guerra faceva rotta col Nord Africa, gli italiani in divisa che dissero no a Hitler e Mussolini vennero trattati peggio degli ignavi danteschi nella palude dello Stige: non erano prigionieri di guerra, di conseguenza senza i benefici della Convenzione di Ginevra e dell’assistenza della Croce Rossa.
Allo stesso tempo, poi, il loro sacrificio fu ignorato per decenni anche in patria. Nel 1955 il relitto fu smembrato dai palombari greci per recuperare il ferro, mentre i cadaveri di circa 250 naufraghi, trascinati sulla costa dal fortunale e sepolti in fosse comuni, furono traslati, in seguito, nei piccoli cimiteri dei paesi della costa pugliese e, successivamente, nel Sacrario dei caduti d’Oltremare di Bari. I resti di tutti gli altri sono ancora là sotto. La tragedia si consumò in pochi minuti ed è stata ignorata per decenni. Eppure si sapeva per filo e per segno come fossero andate le cose.
Le testimonianze
Ci sono le testimonianze dei sopravvissuti, come quella del sergente di artiglieria Giuseppe Guarisco, che il 27 ottobre 1946 ha redatto di proprio pugno per la Direzione generale del ministero un resoconto lucido del naufragio: Dopo l’urto della nave contro lo scoglio” scrive Guarisco, “venni gettato per terra e quando potei rialzarmi un’ondata fortissima mi spinse in un localetto situato a prua della nave, sullo stesso piano della coperta, la cui porta si chiuse. In detto locale c’era ancora la luce accesa e vidi che vi erano altri sei militari. Dopo poco la luce si spense e l’acqua iniziò ad entrare con maggior violenza. Salimmo in una specie di armadio per restare all’asciutto, di tanto in tanto mettevo un piede in basso per vedere il livello dell’acqua. Passammo la notte pregando col terrore che tutto si inabissasse in fondo al mare.
All’indomani, nel silenzio spettrale della tragedia, i sette riuscirono a smontare il vetro dell’oblò, ma non ad uscire da quell’anfratto, perché il buco era troppo stretto. Le ore passavano ma nessuno veniva in nostro soccorso (…). Uno di noi, sfruttando il momento che la porta rimaneva aperta, si gettò oltre essa per trovare qualche via d’uscita e dopo un’attesa che ci parve eterna lo vedemmo chiamarci al di sopra del finestrino. Ci disse allora che era passato attraverso uno squarcio appena sott’acqua. Un altro compagno, pur essendo stato da me dissuaso, volle tentare l’uscita ma non lo rivedemmo più. I naufraghi rimasero due giorni e mezzo rinchiusi là dentro prima dell’arrivo dei soccorsi dal Pireo.
Quello che era riuscito ad uscire ci disse che dove eravamo noi, all’estremità della prua, era l’unica parte della nave rimasta fuori dall’acqua e che intorno non si vedeva nessuno all’infuori degli aerei che continuavano a incrociarsi nel cielo e ai quali faceva segnali. Poco dopo si accostò una barca con due marinai; essi dissero che erano italiani, dell’equipaggio di un rimorchiatore requisito dai tedeschi. Ci dissero di stare calmi che presto ci avrebbero liberati. Ma sopraggiunse l’oscurità e dovemmo passare un’altra nottata più tremenda forse della prima. Articolo di Lorenzo Sani –Su segnalazione dell’amica scrittrice Renza Martini, aggiungo alla lista degli imbarcati e naufraghi del piroscafo Oria il nominativo non menzionato di SACCUCCI Antonio, nato a Piglio (Frosinone) il 7 gennaio 1919”.
Fin qui la storia del naufragio della nave Oria del 12 febbraio 1944.
A Piglio in questi giorni Alfonsina, Giorgio, Raffaella e Floriana si sono messi alla ricerca dei parenti dei due pigliesi naufragati in quella circostanza:
Angelo Atturo nato nel 1923 gemello di Felice e fratello di Quirino aveva due sorelle Rosina deceduta nel 2014 e un’altra sorella vivente a Genazzano è inserito nell’elenco degli imbarcati sul Piroscafo Oria.
Saccucci Antonio, pur non risultando nella lista degli imbarcati, risulta disperso in quella stessa circostanza e all’epoca era residente nel Comune di Paliano. Purtroppo non viene neppure ricordato né tra i Caduti di Piglio né tra quelli di Paliano.
Per questo motivo i ricercatori hanno lanciato l’appello a mezzo stampa per trovare almeno un erede da contattare.
Il lettore si domanderà il perché di questa ricerca.
E’ presto detto!
Perché i parenti di Angelo e di Antonio potranno avere una medaglia d’onore in ricordo dei due innocenti pigliesi prigionieri italiani che si erano rifiutati di aderire al nazismo o alla RSI dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943.
Giorgio Alessandro Pacetti
Post Views: 47